Vladimiro Giacché
Tra le tante verità con cui la crisi attuale ci costringe a confrontarci ve n’è una che riguarda la forza dell’ideologia. La resilienza dell’ideologia dominante, la capacità di tenuta del “pensiero unico” si è dimostrata tale che persino entro la crisi del capitalismo peggiore dagli anni Trenta tutti i luoghi comuni che di quella ideologia avevano costituito l’ossatura nei decenni precedenti hanno continuato a operare, per così dire fuori tempo massimo e in un contesto che ne rende evidente la falsità teorica e la dannosità sociale.
La razionalità dei mercati, lo Stato che deve dimagrire, la necessità delle privatizzazioni, le liberalizzazioni come toccasana, la deregolamentazione del mercato del lavoro come ingrediente essenziale della crescita: praticamente nessuno di quei luoghi comuni, che proprio la crisi scoppiata nel 2007 si è incaricata di smentire clamorosamente, ci viene risparmiato dagli attori e dalle comparse che occupano la scena politica.
Il problema è che, di mistificazione ideologica in mistificazione ideologica, il distacco dalla realtà aumenta sino a diventare patologico. È quello che accade quando si suggerisce, come terapia per i problemi che stiamo vivendo, di più delle stesse misure che hanno creato quei problemi.
Questo distacco dalla realtà, tipico delle élite politiche che stanno per essere travolte dalla storia, si percepisce distintamente quando si leggono le dichiarazioni di intenti che concludono i vertici europei, i comunicati degli incontri tra capi di governo, le interviste di ministri e presidenti del consiglio, “tecnici” o meno.
E pensare che, se non venisse letto attraverso le lenti dell’ideologia neoliberista, quello che sta accadendo sarebbe in grado di illuminare la vera storia di questi ultimi decenni dell’Italia e dell’Europa.
A cominciare dal vizio di fondo dell’Unione Europea.
Che ha dato vita al suo interno ad un’unione monetaria sbilenca (chi ha detto che “non si tratta di un’area valutaria ottimale” ha espresso lo stesso concetto).
Sbilenca perché alla moneta comune non si è affiancata una politica economica comune. E questo non è potuto avvenire perché all’interno dell’Unione (e anche nell’eurozona) non si è voluto che ci fosse una politica fiscale comune. Il meccanismo tecnico attraverso cui questo è avvenuto si chiama “decisioni all’unanimità” sulle politiche fiscali.
In assenza di regole fiscali comuni (ossia di soglie minime di tassazione e di aliquote fiscali uniformi nei diversi Stati dell’Unione), le imprese hanno potuto fare arbitraggio fiscale, creando o spostando filiali operative nei Paesi in cui la fiscalità era più conveniente (vedi alla voce Irlanda). Questo a sua volta ha ingenerato una concorrenza al ribasso tra le fiscalità e quindi una tendenziale riduzione delle tasse medie sulle imprese su scala europea (in qualche caso nella forma di aliquota più basse che in passato, in altri – come nel caso del nostro Paese - di un ampio e tollerato ricorso all’evasione fiscale). Tutto questo ha avuto diversi effetti negativi. In primo luogo - siccome i vincoli di Maastricht imponevano comunque soglie basse di deficit – vi è stato un aggravio del carico fiscale sulle persone fisiche (ed in particolare sui lavoratori dipendenti) e una riduzione delle prestazioni sociali erogate dagli Stati, indebolendo anche per questa via la domanda interna nei Paesi dell’Unione. In secondo luogo (lo si è visto dal 2009 in poi) l’assenza di una politica economica comune ha reso questa crisi impossibile da governare.
L’altro ambito cruciale in cui il meccanismo delle decisioni all’unanimità ha consentito di non uniformare le legislazioni è quelle delle politiche sociali e dell’impiego. Standard di protezione, livelli salariali, stipendi minimi: tutto questo non è stato comunitarizzato, ma è rimasto a livello nazionale.
Le conseguenze di tutto questo sono ovvie:
- nessuno Stato membro può mettere dazi all’importazione su prodotti di altri Paesi dell’unione.
- Ma ogni Stato membro può permettere che le proprie imprese abbassino gli standard di protezione dei lavoratori per abbassare i costi e vincere la competizione con gli altri Paesi dell’Unione Europea: è quello che in questi anni è stato fatto in Germania, in cui dall’introduzione dell’euro i salari non solo non hanno ricevuto che le briciole dell’aumento della produttività del lavoro, ma sono addirittura diminuiti del 4,5% in termini reali (cioè tenuto conto dell’inflazione); in nessun altro Paese dell’eurozona è successo questo (ed è precisamente questo uno dei principali motivi dell’avanzo commerciale tedesco nei confronti degli altri Paesi della zona euro).
- E ogni impresa può migliorare la propria “competitività” facendo arbitraggio fiscale tra i diversi Paesi della stessa Unione Europea (l’hanno fatto praticamente tutte le grandi imprese).
In questo modo i costi sociali della “competitività” li pagano i lavoratori. E li pagano tre volte: con meno salario e meno diritti, più tasse e meno servizi.
Non solo. In assenza di un’unione economica, l’unione monetaria, grazie alla fine del rischio di cambio, ha accentuato la specializzazione produttiva tra i diversi paesi dell’Unione (Germania sempre più forte nel manifatturiero, altri paesi in servizi, immobiliari o di altro tipo, non rivolti all’esportazione: con il conseguente accumulo di debito di questi paesi verso l’estero). Inoltre questa unione, essendo da un lato priva di meccanismi economici di compensazione degli squilibri strutturali tra i diversi Paesi dell’eurozona, a cominciare da quelli della bilancia dei pagamenti, e dall’altro rendendo impossibili svalutazioni competitive, aveva per così dire scritto nel suo dna il rischio di diventare una camicia di forza intollerabile in caso di gravi difficoltà economiche di alcuni dei paesi che ne fanno parte.
Questo rischio si è materializzato con la crisi del 2007-2008.
Quando, a partire dagli Stati Uniti, salta il modello di crescita drogata dalla finanza e a debito (debito privato prima ancora che debito pubblico) e la crisi attraversa l’Atlantico e colpisce anche in Europa, succede questo:
- gli Stati si svenano per soccorrere le imprese private (finanziarie e non) in difficoltà, ponendo per questa via le premesse per l’attuale crisi del debito sovrano (questo discorso è in buona parte generalizzabile, ma in Europa vale soprattutto per Irlanda e Spagna, oltreché per Francia e Germania);
- diminuisce il prodotto interno lordo e quindi aumenta il rapporto debito/pil (questo ha avuto gravi conseguenze soprattutto in Italia);
- crollano le entrate fiscali dello Stato, peggiorando anche per questo verso il rapporto debito/pil (le conseguenze di questo sono state particolarmente gravi in Grecia, dove le basse entrate fiscali hanno impedito di nascondere più a lungo la reale situazione dei conti pubblici, che era stata coperta con trucchi contabili per poter entrare nell’eurozona);
- i flussi di capitali esteri diretti verso alcuni paesi cominciano a prosciugarsi e evidenziano il deficit della bilancia commerciale di questi paesi e più in generale l’insostenibilità del debito verso l’estero di questi Paesi (Grecia, Portogallo, di nuovo Spagna).
Come sappiamo, la crisi scoppia in Grecia nel novembre 2009, quando i socialisti di Papandreu, appena vinte le elezioni, decidono di rendere note le condizioni dei conti pubblici, molto più drammatiche di quanto si pensasse.
A questo punto l’Unione Europea è di fronte a un bivio: o si va in direzione di un’Unione dei trasferimenti (di impronta federale), oppure si continua ad andare ognuno per sé, accentuando il carattere già marcatamente intergovernativo delle politiche, perdipiù a forte dominanza (non prevista da alcun trattato) franco-tedesca.
Si sceglie la seconda strada. E iniziano mesi di tira e molla sugli aiuti da dare alla Grecia e sulle condizioni cui subordinarli. Nel frattempo la speculazione brucia il valore dei titoli di Stato ellenici, peggiorando gravemente la situazione.
Ma c’è un motivo di fondo per cui la Grecia non può essere lasciata sola: questo motivo è rappresentato dagli ingenti prestiti concessi delle banche tedesche e francesi alla Grecia (per permettere allo Stato e ai cittadini greci di comprare prodotti tedeschi e francesi, incluse le armi, in relazione alle quali la Grecia era dopo gli Stati Uniti lo Stato dell’Ocse che spendeva di più in proporzione del prodotto nazionale).
Il problema viene “risolto” nel maggio 2010 con un “salvataggio” che è in realtà un salvataggio delle banche tedesche e francesi e non della Grecia.
In cambio di nuovi prestiti alla Grecia vengono imposte manovre di austerità durissime, che deprimono l’economia (basti dire che nell’ultimo anno la domanda interna è crollata del 18%) e fanno precipitare consumi ed investimenti. Con il risultato di far balzare il rapporto debito/pil dal 128% del 2009 al 150% del 2010.
Nel frattempo quello che era un problema molto circoscritto (anche perché relativo ad un Paese che esprimeva appena il 5% del pil dell’area) si allarga. Altri paesi sono colpiti.
L’Unione Europea reagisce nel modo peggiore. Non soltanto non spegne nessuno degli incendi che divampano in questi paesi, ma restringe i requisiti e le sanzioni previste dal “patto per la stabilità e la crescita” di Maastricht, trasformandolo a tutti gli effetti – secondo una felice battuta di Martin Wolf del Financial Times – in un “patto per l’instabilità e la stagnazione”. All’interno di un più generale irrigidimento dei criteri, si fa qualcosa di destinato ad avere pesantissime ripercussioni negative sul nostro Paese: si decide di porre l’attenzione non soltanto sul deficit ma sul debito pubblico. In questo modo l’Italia, fino ad allora fuori dai riflettori, entra in gioco. La più importante in assoluto delle critiche che devono essere fatte al governo Berlusconi riguarda il fatto di non aver posto il veto su questa modifica dei trattati, le cui conseguenze estremamente negative erano chiare da mesi (ne avevo trattato già il 5 ottobre 2010: http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/10/05/farla-finita-con-questa-europa/67958/ ).
Il nuovo patto prevede in particolare una procedura di rientro dai debiti che eccedono il 60% del pil nella misura del 5% (dell’eccedenza) annuo. Questo per l’Italia, il cui debito pubblico a causa della crisi è tornato al 120% del pil, significa la necessità di un avanzo di bilancio dell’ordine di 47 miliardi all’anno. Chiunque sappia fare due conti – e chi opera sui mercati generalmente questo lo sa fare - capisce che si tratta di un onere assolutamente insostenibile.
Le decisioni europee sono di fine marzo. Da inizio aprile lo spread tra i Btp decennali e i Bund decennali (ossia la differenza tra gli interessi che lo Stato italiano deve pagare a chi detiene i suoi titoli di Stato e quella che paga il governo tedesco) comincia a crescere e passa in pochi mesi da 120 punti base ai 497 di novembre.
In mezzo c’è il peggioramento della situazione greca (che rende visibili ad ogni investitore in titoli di Stato europei che il rischio di perdere dei soldi non è più soltanto teorico) e soprattutto i contorsionismi del governo Berlusconi, che nega i problemi contro ogni evidenza, perde tempo, e anche quando è costretto a impostare una manovra la infarcisce di norme ad personam e incontra problemi di copertura pur di non tassare i redditi più elevati.
In ogni caso, a partire dall’estate, vengono deliberate manovre, perlopiù a scoppio ritardato (ossia con effetti visibili non subito, ma a partire dagli anni successivi), del valore complessivo di 110-120 miliardi sino al 2014.
Il resto è storia più recente.
Sino alla caduta di Berlusconi, all’insediamento del governo Monti e alla manovra “Salva-Italia” da 34 miliardi che in questi giorni è in approvazione da parte del Parlamento.
I contenuti di questa manovra e quanto sta accadendo in Europa in questi giorni sono la migliore dimostrazione del fatto che aveva ragione la Federazione della Sinistra a chiedere di andare subito a elezioni anticipate.
Sulla manovra, i numeri parlano chiaro. Su 34 miliardi, in base a quanto riportato dallo stesso Sole 24 Ore di sabato 17 dicembre:
- 11 miliardi provengono dalla nuova tassa sulla casa (che come noto non esenta la casa di abitazione);
- 10,426 miliardi da ulteriori nuove tasse (che salgono a 13,706 nel caso – molto probabile - di un ulteriore aumento dell’Iva al 23% il prossimo anno). Di queste nuove tasse, solo 453 milioni si riferiscono a consumi di lusso, e appena 1.461 milioni provengono (ipoteticamente) da un’ulteriore microtassa sui circa 100 miliardi di capitali illegalmente detenuti all’estero, e in gran parte frutto di evasione fiscale, fatti rientrare (spesso solo nominalmente) da Tremonti dietro il pagamento di un obolo del 5%;
- 2,080 miliardi provengono dalla vergognosa manovra sulle pensioni (allungamento dell’età di pensionamento anche di 6 anni, blocco dell’indicizzazione delle pensioni, ecc.), che tra l’altro non è una una tantum ma ha caratteri strutturali.
- 1.071 milioni poi provengono da un’imposta sulle attività finanziarie (peraltro assolutamente non proporzionale all’entità dei patrimoni mobiliari detenuti) e
- 3.200 milioni dovrebbero venire da liberalizzazioni, che per la verità non sono neppure state inserite nella manovra finale.
Come definire questa manovra? Con tre “i”: ingiusta, inutile, insostenibile (e quindi – come vedremo tra poco - controproducente rispetto allo stesso fine dichiarato di abbattere il debito pubblico).
I numeri che ho citato sono altrettanti motivi per i quali questa manovra è ingiusta.
Ma questa manovra è anche inutile, perché non pone mano a nessuno dei problemi strutturali del nostro paese.
- Non tocca le grandi ricchezze.
- Non tocca le corporazioni (questo governo così intrepido con i pensionati è stato messo vergognosamente in fuga da farmacisti, notai e avvocati) e quindi – a dispetto della continua retorica sull’argomento – non liberalizza un bel niente.
- Non tocca l’evasione fiscale: la tracciabilità dei pagamenti portata a 1.000 euro è davvero la montagna che ha partorito il topolino, e nessuna persona sana di mente può pensare che essa consenta di recuperare anche minima parte di quei 120 miliardi di gettito evaso all’anno che rappresentano una delle più vergognose caratteristiche del nostro sistema economico. Ed è bene precisare che non si tratta di un problema etico, ma di un tema in cui confluiscono necessità economiche cruciali che vanno dalla redistribuzione del carico fiscale (oggi enormemente squilibrato ai danni del lavoro dipendente) al miglioramento della concorrenza, dal rafforzamento della competitività di sistema alla concentrazione dei capitali oggi capitalisticamente necessaria.
Il modo migliore per capire di cosa stiamo parlando è quello di lasciar parlare alcuni studiosi di orientamento liberale, i quali hanno detto a chiare lettere:
- che il problema fiscale è ben più importante per la competitività della riduzione del costo del lavoro: “Una forte redistribuzione del carico fiscale è il bandolo della matassa: afferratolo, incideremmo sui nostri problemi. Per tornare competitivi, attaccare la corruzione e affermare la rule of law è più importante che ridurre il costo del lavoro, lo provano fior di ricerche… Finirebbe il vantaggio competitivo di chi evade le tasse su chi le paga; calerebbe il debito pubblico e la corruzione che infesta il Paese” (S. Bragantini, “Battaglia (vera) contro l’evasione per rilanciare la competitività”, Corriere della sera, 14 aprile 2010);
- che l’evasione può essere battuta: “Non vi è una ragione tecnica che spieghi perché l’evasione fiscale sia così diffusa nel nostro Paese, tanto da essere un fenomeno di massa. La ragione è politica. Se davvero si volesse, l’evasione fiscale potrebbe essere sostanzialmente debellata con investimenti non elevati” (A. Provasoli, G. Tabellini, “Il fisco e i patrimoni da accertare”, Il Sole 24 ore, 14 aprile 2010).
- che la lotta contro l’evasione è assente dalla manovra Monti: “a parer mio la maggiore assenza è quella della lotta all’evasione fiscale ed alla corruzione pubblica e privata, senza la quale l’abusata parola ‘equità’ diventa un riferimento vuoto” (Guido Rossi, Anti-evasione risposta alla Ue, il Sole 24 ore, 11 dicembre 2011).
Proprio il fatto di non affrontare questi nodi rende la manovra insostenibile: perché la fa gravare su una parte della popolazione che già non ce la fa più, con la necessaria conseguenza di incidere in maniera drammatica sui consumi.
Giovedì 15 dicembre è uscita la previsione del Centro Studi di Confindustria per il 2012, che vede un prodotto interno lordo in calo dell’1,6%.
Due giorni dopo sul Sole 24 Ore Luigi Guiso ammoniva che si tratta di una cifra ottimistica, soprattutto a causa del ridotto risparmio delle famiglie, che “amplifica l’effetto dell’incertezza sulla domanda” – e, possiamo aggiungere noi, “amplifica l’effetto della certezza delle misure depressive assunte dal governo Monti”.
E’ infatti facile prevedere che questa manovra, che si aggiunge a quelle già fortemente depressive che l’hanno preceduta, colpirà severamente il prodotto interno lordo del nostro Paese, peggiorando il rapporto debito/pil e quindi infilandoci nel tunnel greco.
Non lo diciamo solo noi. Questo è quanto ha scritto Paul Krugman sul suo blog per il New York Times il 14 dicembre scorso, riferendosi esplicitamente alla manovra di Monti:
“Più austerità non convincerà i mercati dei titoli di Stato che l’Italia sta bene. In realtà l’austerità – a meno che non ci siano significativi mutamenti di politica a Francoforte – è probabilmente un autogol, perché danneggerà l’economia italiana più di quanto la aiuti a migliorare la sua immagine nel breve termine.”
In queste parole, condivisibili in toto, è molto appropriato il riferimento a Francoforte: per il semplice motivo che al punto in cui siamo sulla valutazione dei titoli di Stato italiani influisce molto di più l’assenza di volontà a livello europeo di prendere in mano la situazione di qualsivoglia manovra possa essere messa in campo in Italia.
E purtroppo quello che accade a Francoforte e in Europa è tutt’altro che confortante. Dal summit europeo dell’8 e 9 dicembre, circondato da attese escatologiche, non è uscito nulla – ma proprio nulla – di positivo:
- nessun via libera alla Bce ad acquistare illimitatamente titoli di Stato europei (mentre vengono ampliati i prestiti della Bce alle banche private),
- nessun via libera agli eurobond,
- potenziamento soltanto di facciata al Fondo salva-Stati (dotazione da 440 a 500 miliardi di euro, assolutamente insufficienti a fronteggiare una crisi di Stati come Italia e Spagna),
- ipotesi (quantomeno bizzarra) di coinvolgimento del Fondo Monetario Internazionale tramite fondi versati dagli Stati europei (che quindi comincerebbero con l’indebitarsi ulteriormente, cosa su cui peraltro la Bundesbank già sembra tirarsi indietro),
- nessun passo avanti sull’unione fiscale, e al suo posto un controllo più stretto sulle politiche di bilancio dei singoli Paesi.
Ce n’è abbastanza per condividere il giudizio di Martin Wolf, uno dei migliori editorialisti del Financial Times, il quale ha definito il summit “un fallimento disastroso” (“A disastrous failure at the summit”, Financial Times, 13 dicembre). Vale la pena di riprendere alcune delle sue argomentazioni:
“L’eurozona non ha alcun piano credibile per mettere a posto i problemi dell’eurozona, a parte la richiesta di maggiore austerity: non ci sarà nessuna unione fiscale, finanziaria o politica; e non ci sarà alcun meccanismo bilanciato di aggiustamento economico su entrambi i lati della frontiera tra creditori e debitori. La decisione è invece quella di perseverare e insistere con quel patto per la stabilità e la crescita che sinora ha fatto fallimento in modo tanto prevedibile quanto costante…
E’ estremamente difficile eliminare i deficit fiscali in paesi che sono strutturalmente importatori di capitali in assenza di recessioni prolungate o di enormi miglioramenti nella loro competitività verso l’estero. Ma quest’ultima è relativa, e quindi i miglioramenti necessari nella performance sull’estero dei paesi deboli dell’eurozona implica o un peggioramento di quella dei paesi esportatori di capitali dell’eurozona, o un radicale miglioramento della performance esterna dell’eurozona nel suo complesso. La prima cosa richiede che la Germania divenga molto meno tedesca. La seconda che l’eurozona nel suo complesso diventi una mega-Germania. Chi può ritenere plausibili esiti del genere?
Questo fa sì che il risultato più verosimile dell’orgia di austerity fiscale sarà un altro: recessioni strutturali di lungo periodo nei paesi deboli. Per dirla in modo brutale, la moneta unica finirà per significare deflazione salariale, deflazione da debiti e recessioni economiche prolungate. Ora, per quanto grandi siano i costi di una rottura dell’area monetaria, come potrà durare una situazione del genere?”
L’analisi di Wolf è corretta, e le sue ultime parole segnalano con chiarezza i veri rischi che stanno di fronte a noi.
Il nostro governo ha imboccato la via della tragedia greca, mentre l’establishment europeo continua a pilotare ostinatamente il Titanic europeo contro gli scogli, con la sua attenzione ossessiva e monomaniacale al pareggio di bilancio.
I motivi di questa monomania sono senz’altro anche ideologici, ma ovviamente c’è dell’altro.
In realtà, quello a cui assistiamo è il tentativo di risolvere la crisi del debito affrontandola dal lato del debito pubblico e attraverso la distruzione su larga scala dei sistemi di welfare. Con l’intento di conseguire questi risultati:
- scaricare il costo della crisi su salari indiretti e differiti, riportando i costi della riproduzione sociale in capo agli individui;
- aprire al capitale (o, come si preferisce dire, al “mercato”) nuovi ambiti di valorizzazione. Di fatto, si tratta della prosecuzione e radicalizzazione della tendenza a sussumere sotto il capitale l’intero ambito della vita associata;
- infine, scaricare l’eccesso di capacità produttiva (quindi la distruzione di capacità produttiva) su alcuni paesi europei e centralizzare capitali a vantaggio del capitale tedesco.
Il problema è che questo processo porterà inevitabilmente a una gravissima recessione nei paesi oggi interessati dalla crisi del debito e farà saltare la stessa moneta unica.
Per questi motivi oggi una battaglia politica per creare in Italia una forte opposizione di sinistra nei confronti dell’attuale manovra
- è l’unico modo per difendere gli interessi dei lavoratori (quelli di oggi, quelli di ieri e quelli di domani)
- ma è anche è l’unico atto oggi possibile di difesa degli interessi nazionali.
Da questo punto di vista, alla denuncia contro le manovre impopolari ed economicamente distruttive del governo andrà unita una forte denuncia dell’attuale indirizzo antidemocratico e reazionario delle politiche europee e la forte rivendicazione della necessità che il nostro Paese torni a fare sentire la sua voce in Europa,
- rifiutando di farsi intrappolare nel circolo vizioso politiche di austerity deflattive/crollo dell’attività economica/default.
- ribadendo che l’Europa delle banche non è un destino ineluttabile e che lo stesso euro non può essere un feticcio intangibile se i costi economici e sociali della permanenza nell’eurozona cominciano a superare i vantaggi.
Tutto questo non può farlo un governo tecnico. E soprattutto non può né vuole farlo questo governo.
Per questo la nostra opposizione a questa manovra deve avere l’ambizione di parlare a tutti i cittadini e a tutte le nostre forze sociali di riferimento, come pure a tutti coloro che in Europa si battono contro le politiche volute dall’attuale establishment europeo. Con l’obiettivo di costruire un’alternativa a questo governo e a questa Europa.
(Roma, 18 dicembre 2011)
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